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Cronaca

La Dea, gli Alpini e la moglie: gli amori del compianto Piero Moretti di Nembro

La Dea, gli Alpini e la moglie: gli amori del compianto Piero Moretti di Nembro scomparso lo scorso 10 marzo all’ospedale di Alzano Lombardo.

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“Mola mia, Ol Pierin!”. Piero Moretti, per tutta Nembro “Il Pierino”, non aveva mai lasciato per strada nessuno. Con la sua ape-car era sempre in giro ad aiutare chi aveva bisogno, o a rendere l’ultimo saluto a un amico. Magari si faceva anche 40 km per andare nella Bassa a un funerale, ma lo faceva di cuore. Il Pierino era così: tutto cuore e generosità.

Gli amori folli di Piero

L’uomo aveva due amori folli: gli alpini e l’Atalanta, oltre che un affetto smisurato per la moglie argentina Yorca. Il suo primo colpo di fulmine, diciottenne, è stato con una ragazza particolare, si chiamava Dea e porta da sempre i colori nerazzurri. Siamo nella Bergamo degli anni 60’. Piero si guadagna da vivere facendo il garzone in una salumeria del centro. L’Eco è diretto da Mons. Andrea Spada, un tifoso atalantino di prim’ordine. Grazie al supporto del prelato e alla passione dei tanti tifosi bergamaschi, il 26 marzo 1966 viene fondato il “Club Amici” dell’Atalanta. Tra i fondatori, Elio Corbani e lo storico giornalista dell’Eco Arturo Zambaldo. “Conosco Piero fin da giovanissimo, penso avesse diciotto anni. Io avevo fondato il “Club Amici”, in quel marzo 1966. Un anno dopo, nel ’67, viene a bussarmi un ragazzino appassionato, col fuoco del tifo negli occhi. Mi chiede di poter fare un suo club, a Nembro. Ecco che da quel momento siamo stati inseparabili: io, lui e l’Atalanta”.

Piero è molto attivo, il sangue nerazzurro gli fa fare sacrifici sul lavoro pur di potersi permettere le trasferte della sua Dea. “Nel ’71 l’Atalanta arriva seconda in classifica. Ci sono gli spareggi a Genova contro il Cagliari. Noi, come “Club Amici” dell’Atalanta, abbiamo organizzato un serpentone di pullman al seguito della squadra, per la promozione in serie A. I pullman erano più di 90, tantissimi i tifosi al seguito. Io e Piero eravamo in cima alla carovana nella macchina dell’Eco, insieme a un ispettore di polizia di allora. Facemmo la staffetta in autostrada. Ne valse la pena: la nostra Atalanta vinse contro il Cagliari e tornò in serie A”. La passione per la squadra cementa un’amicizia intima e familiare che dura da sempre.

“L’ho visto fino a due settimane prima del suo ricovero in ospedale. Ogni sabato, nel palazzo dell’Eco, facevamo una riunione con gli amici del Club. Piero non ne ha persa mai una. Anche se non era più operativo come ai vecchi tempi, veniva a trovarci e ci intrattenevamo a discutere delle cose della vita, con un occhio sempre rivolto alla nostra grande passione: l’Atalanta”.

Arturo l’ha visto crescere, negli anni non si sono mai persi. Il garzone di provincia si era fatto uomo, senza mai perdere la sua preziosa genuinità e quel suo carattere affabile e disponibile. “Era un ottimo ragazzo, poi diventato signore altruista. Aveva una bontà d’animo e una generosità eccezionali, si dava da fare per tutti. Non diceva mai di no”. La maglia della Dea appesa in camera, il gagliardetto degli Alpini cucito con orgoglio sul petto. Piero si è presto unito agli alpini di Nembro, fino a diventare alfiere e simbolo dell’intera Comunità.

Un Alpino nato, per 30 anni alfiere del gruppo

“Piero era un alpino nato. Per 30 anni ha fatto l’alfiere: presenziava a tutti i funerali alpini, a tutte le funzioni alpine e a tutte le cerimonie istituzionali con il suo gagliardetto. Era la bandiera del gruppo”. Pierluigi Squinzi, avvocato nembrese, è il capogruppo degli alpini a Nembro. Parla di Piero come di un fratello maggiore, un affetto stretto che riempiva di umanità e altruismo le giornate della Valle.

“Manca molto al gruppo: è stato presentissimo, in ogni momento. E’ un vuoto che pesa. Piero era orgogliosissimo di essere il nostro alfiere. Pensi che aveva fatto cucire alla moglie un gagliardetto che abbiamo ancora nella nostra sede. Nei tempi più recenti, quando non stava bene, avevamo delegato un altro alpino in sua sostituzione. Quante volte mi ha chiamato, con la voce rammaricata ma energica: “Pigi, l’alfiere sono io, eh! Appena riesco, torno da voi!”. Piero non è mai tornato, fra lo stupore di tutti. Non l’hanno più visto al Parco Rotondo, sede degli Alpini di Nembro. Nessuno l’ha più incrociato all’Acli, come ai vecchi tempi a vedere la Dea in televisione.

La vita privata

Al sabato, i suoi “Amici” hanno smesso di aspettarlo nel Palazzo dell’Eco. In via Crespi, a Nembro, la moglie Yorca lo aspetta ancora. Non si rassegna, non può farlo, alla perdita di un uomo con cui ha condiviso tutto, anche l’amore per la sua Comunità e la sua Terra. Piero, come Yorca, amava la Valle e nessun altro. Le persone erano diventate le “sue” persone, i luoghi i “suoi” luoghi, sua moglie un punto di riferimento insostituibile.

La morte dell’amico fraterno Bonifacio

La vita di Piero cambia all’improvviso nel 2018, quando perde suo “fratello” Bonifacio Bergamelli, con cui da sempre condivideva tutto: dallo sport ai pranzi sociali, dalla passione per la Dea alla caccia. Bonifacio viene investito da un furgone mentre pedala in sella alla sua bicicletta: lotta fino all’ultimo, ma non ce la fa. Piero ha lottato con lui, ma è forse in quella lotta che ha perso un pezzo di sé stesso, il cuore affaticato e la testa svuotata di energie e di ottimismo. I cuori d’oro, si sa, sono più sensibili e fragili. Piero non regge l’urto di una perdita così importante, la rielaborazione del lutto dell’amico s’inceppa, il male oscuro lo assale. “Stava male da quando Bonifacio è morto in un incidente. Per lui Bonifacio era un fratello, condividevano tutto, erano inseparabili. Da qualche tempo si era ammalato di depressione, aveva spesso crisi di panico. Io gli dicevo: vuoi bene al Bonni? Lui ti vorrebbe vedere felice, se fosse qui. Non ti ammalare, stai su! Io e te abbiamo fatto un progetto insieme, abbiamo anche il mutuo della casa da pagare. Stai su, non mollare!”.

Il ricovero ad Alzano

A inizio marzo, Piero ha una delle sue crisi, ma questa volta più grave del solito. Così è necessario il ricovero, che avviene il 2 marzo presso l’ospedale di Alzano. L’alpino entra in ospedale nel pieno della tempesta Covid, ma lui è sano, senza sintomi, nessuna linea di febbre. “Piero viene ricoverato, trascorre le notti del 3 e 4 marzo in ospedale senza alcun problema. Il giovedì 5, la crisi sembra alle spalle. Quel giovedì sono stato da lui, l’ho visto per un’ora e mezzo. Gli ho parlato, aveva tanta voglia di venire a casa. La dottoressa mi ha detto: sta benone, oggi lo dimettiamo. Ero così felice che gli ho lasciato le chiavi. Gli ho detto: quando arrivi a casa, chiamami! Io intanto sono tornata a lavoro”. Yorca lascia il marito quasi felice. Il peggio sembra passato. Alle 14, tuttavia, non ha ancora ricevuto una sua telefonata. Allora, preoccupata, lo chiama: “Alle 14 sono riuscita a parlarci. Mi ha detto che lo trattenevano perché doveva fare alcuni controlli. Allora sono uscita prima da lavoro e sono andata in ospedale. Quando arrivo, intorno alle 17, gli stavano facendo la TAC. Mi chiedo: perché la TAC? Cosa è cambiato da questa mattina?”.

Yorca si accorge che qualcosa non va, in poche ore è cambiato tutto. “Ho aspettato la dottoressa più o meno per 3 ore. La dottoressa arriva e mi dice: mi spiace ma a suo marito ha iniziato a salire la febbre. Dalla TAC i polmoni non vanno per niente bene. Mi sa che ha preso il coronavirus”. Il virus penetra silenzioso e subdolo nei polmoni dell’alpino, con tutta evidenza compromessi all’interno dell’ambiente ospedaliero. Per Yorca quella notizia è devastante e inaspettata. Le parole della dottoressa segnano l’inizio del suo drammatico calvario. “Sono crollata, mi sono messa a piangere lì davanti. E’ stata una batosta, un secchio d’acqua fredda: per scaricare la tensione ho camminato dall’ospedale fino a casa, a Crespi alto. Sono arrivata a casa, stremata, dopo le 20. Ero a pezzi, non riuscivo a stare in piedi”. La donna, stravolta, esce dall’ospedale e cammina senza fermarsi per 5 km, deve smaltire quella batosta arrivata senza alcun preavviso. Oltre al danno, la beffa: la donna è obbligata a rispettare la quarantena.

“La dottoressa mi ha detto: mi raccomando faccia la quarantena, a suo marito pensiamo noi. Lo può chiamare quando vuole. Per me è stato duro anche per il lavoro. Menomale che hanno capito la situazione e sono stati gentili”. Intanto il marito sta bene: si alza, cammina, non riesce a stare fermo. Nonostante il virus, la situazione sembra sotto controllo. I due si sentono spesso. Arrivano le rassicurazioni dei medici. Tuttavia, Piero vede che la situazione in ospedale è frenetica, caotica, poco rassicurante. “Mi diceva di continuo: qui non sanno quello che fanno, è un macello. Voglio tornare a casa”. Passano i giorni, Yorca li trascorre con ansia e preoccupazione, ma la voce del marito la rassicura. “Io lo sentivo bene. Gli dicevo: hai una bella voce, Piero. Dai, cantiamo insieme l’inno nazionale. Così ci siamo messi a cantarlo al telefono, è stato un grande gesto di speranza”.

La morte improvvisa

Il ricovero in ospedale aumenta la solitudine, si ha l’impressione di essere in un’altra dimensione, separati dal mondo a cui ci sentiamo di appartenere. L’effetto straniante, e con esso la disperazione, cresce con il trascorrere interminabile dei giorni. Così è forte il desiderio di sentirsi parte della Comunità, di non spezzare il filo con quelle persone e quelle Valli a cui hai dato tutto. Piero, fra quelle quattro mura, si sente in gabbia. “Lunedì mi ha detto: guarda, Yorca, adesso ho capito tutti gli sbagli che ho fatto. Ora sto bene, sto camminando. Te lo prometto: quando arrivo a casa non ti faccio più tribolare. Saremo ancora felici, hai la mia parola. Alla sera l’ho chiamato, non mi ha risposto. Mi ha chiamato la dottoressa il martedì. Mi ha detto: suo marito nella notte è peggiorato e non ce l’ha fatta; mi spiace”. Yorca crolla, è presa dalla disperazione. Rimangono tanti interrogativi sulla morte dell’alpino dal cuore d’oro. La moglie non si dà pace: “ Io ho questo rimorso dentro. Mi chiedo sempre: cosa gli è capitato, dentro quell’ospedale? E’ entrato sano e non è più uscito! Sono rimasta sconvolta! Fino al giorno prima camminava, poi è morto. Non l’ho più visto, se non al funerale 12 giorni dopo”. Piero Moretti, 70 anni, non ce l’ha fatta. E’ venuto a mancare martedì 10 marzo all’ospedale di Alzano.

Una morte improvvisa, inaspettata, dopo il ricovero di una settimana. L’ospedale non ha mai fornito spiegazioni circa le cause della sua morte. “Io mi chiedo sempre questo: uno che ha il Coronavirus sta a letto. Ma lui camminava! Mi devono spiegare che cosa è successo!”. La voce si increspa, il respiro si fa corto. Il dolore della moglie è incolmabile. Le dico: “Signora, mi raccomando, non si butti giù. Lo deve a suo marito. Lui la vorrebbe felice”. La “stella alpina”, sconsolata, ribatte: “Sono da sola, manca il marito, è dura! E chi me lo ridà più, ora, ol mio Pierin?”. 

Alberto Luppichini

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