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Cronaca

Nello stesso ospedale senza potersi salutare, lo strazio di Beppe che ha perso il padre Antonio

Nell’emergenza sanitaria in bergamasca è capitato anche che un padre e un figlio fossero ricoverati nello stesso ospedale senza potersi salutare. Come Beppe Ardenghi di Nembro che ha perso il padre Antonio.

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Antonio Ardenghi è il frutto umile della sua terra operosa. Profilo basso, taciturno, ma da sempre determinato e pieno di energie. Nato da una famiglia povera, fin da piccolo deve arrangiarsi per sopravvivere e tenere in piedi la famiglia. Così, insieme agli amici, fa incetta di frutti sulle piante. Non c’è molto da scegliere, tutto ciò che trova è indispensabile per sfamarsi e non morire di fame. Così, al suo ritorno, i genitori possono abbuffarsi di pesche, ciliegie, castagne e ogni altro frutto commestibile della loro terra. Tutti gli agricoltori versavano in condizioni di estrema povertà. Antonio non faceva eccezione. E’ la Bergamasca degli anni ’40. Poche grandi industrie, tanto sudore degli agricoltori per sopravvivere. Ma anche tanta dedizione e sacrificio. Tanta voglia di trasformare quel sudore in un progetto di vita accettabile per i propri figli. La cultura del sacrificio e dell’umiltà è nel dna di Antonio. Troppa povertà per alzare la testa. Troppo orgoglio bergamasco per mollare il colpo. Lo spirito contadino, pieno di semplicità e operosità, è sempre rimasto quello. Fin dalla prima ora.

Il ricordo del figlio Beppe

“Episodi di vita da raccontare, per la semplicità con cui ha vissuto, non ce ne sono tanti. La sua famiglia era molto povera. Si viveva nella miseria. Pensi che era lui, bambino, ad andare con gli amici a cercare il sostentamento per la famiglia. Tutto quello che c’era sulle piante, lo prendevano. Era un bambino, ma già aveva più responsabilità di un adulto. Di fatto, si caricava sulle spalle la famiglia. Per questo è cresciuto così umile e con la testa sulle spalle”.

Beppe Ardenghi, uno dei figli di Antonio, ha la voce trafelata di chi è appena tornato dal lavoro. “Sono sempre di corsa, sa. Sempre a lavorare. Beh, ma aspetti un attimo che le dico tutto su mio padre, se lo merita di essere ricordato in un certo modo”. Beppe è ancora sconvolto, straziato da una perdita così pesante e lacerato da una ferita ancora profonda. Combatte la sua perdita con un racconto veloce, scandito da poche pause, quasi a non voler fissare quei momenti, lasciando tutto un po’ sospeso. Perché i ricordi sono macigni che schiacciano. E il dolore soffoca, fa mancare l’aria.

Quello di Beppe è ancora lì, dietro l’angolo. “Salendo le scale, ho appena incontrato un alpino più giovane di mio papà di 20 anni. Mi ha chiesto se sapevo qualcosa della cerimonia funebre. Mia mamma è stata agli uffici parrocchiali, dovremmo riuscire a organizzare il funerale per la prima o la seconda settimana di giugno. Con la speranza che aprano le regioni, così mio fratello dal Veneto può partecipare. Dico a Beppe: avrei piacere che ci fosse anche un gruppo di alpini al funerale. Mio papà lo avrebbe voluto. Lui mi fa: che ti faccia piacere o no, noi ci saremo! Mi sono commosso”. Dai campi della bergamasca, alle campagne di Voghera. “Dopo la quinta elementare veniva mandato a lavorare a Voghera in una fattoria di contadini. Si alzava prestissimo per mungere le vacche. Puliva. Aiutava a curare i campi. Era un garzone attento e umile”. Dopo qualche anno, Antonio tornava a casa. Si arrangiava con dei lavoretti, faceva il ferraiolo a Nembro. Poi veniva assunto nell’azienda dove rimarrà fino alla pensione. “Il lavoro era stabile. Ma la famiglia cresceva e i soldi non bastavano. Così faceva le sue 8 ore in fabbrica e poi andava a lavorare per un manovale-muratore in un paesino qui vicino. Avere due lavori era normale, in molti lo facevano per mantenere la famiglia. E’ stato in questa ditta fino alla pensione. Era un tipo metodico e preciso. Per questo, anche in pensione lo hanno chiamato per riordinare il magazzino di un’impresa edile. Lì arrivavano i camion dove smantellavano i cantieri, e gettavano tutto il materiale per terra. Così lui sistemava il capannone in vista del prossimo cantiere”.

Una vita dedicata a lavoro e famiglia

Antonio passa una vita da capo-macchine, lavorando su una macchina laccatrice. “In azienda dovevano stendere i colori con grammature ben precise. Così il suo compito era di impostare la macchina alla giusta velocità e alle giuste temperature. Colorava l’alluminio, non era semplice. La sua ditta metalmeccanica produceva alluminio in vari spessori e colori. La sua vita era tutta lì. Lavorava 12 o 13 ore al giorno, mangiava e dormiva. Non si è mai potuto permettere una vacanza”. Un uomo calmo, metodico, preciso, senza slanci particolari. Semplice e genuino, il suo silenzio operoso diretto unicamente al bene della famiglia. Poco importava il resto. Il suo mondo era quello, e bastava a riempirlo. Nelle sue giornate faticose, solo una passione lo distoglieva da quel ripetersi incolore di fatti e di gesti: gli alpini. “Era presente a tutte le sfilate, a tutte le raccolte fondi che c’erano in Paese. Ha anche contribuito a costruire il Parco Rotondo nei giardini pubblici di Nembro. Gli alpini erano la sua seconda famiglia. Aveva molti amici ed era molto apprezzato”.

Il ricordo del gruppo Alpini di Nembro

Chi lo apprezzava era senza dubbio Pierluigi Squinzi, avvocato e capogruppo degli alpini di Nembro, un padre con tanti figli vestiti orgogliosamente di verde: “Antonio è stata una delle colonne portanti del gruppo almeno per 40 anni. E’ sempre stato nel Consiglio e ha contribuito in modo fattivo e importante alla costruzione della nostra sede nel Parco Rotondo, a Nembro. Era un uomo mite ma di grande fatica, parlava il necessario ed era molto disciplinato. Ogni volta che il gruppo chiamava, rispondeva presente”. Silenzioso e disciplinato, la sua presenza invisibile era di peso e di conforto per il gruppo: “Non si tirava mai indietro, né per lavorare né per far festa, ma sempre in un modo particolare, cioè in modo contenuto. Era una persona molto umile. Quando riceveva elogi, diventava paonazzo”. Non amava aprirsi, Antonio. Ma l’ambiente degli alpini lo rassicurava, come se risvegliasse la sua tenerezza e la sua ingenuità da bambino. Così si abbandonava a racconti della sua infanzia: “Ricordo che amava raccontare qualche aneddoto sulla sua gioventù. Quando, alla fine del consiglio, si beveva un bicchiere, allora si lasciava andare: le partite a pallone nella Nembrese, la naja con Beppe Novelli. Oppure ci raccontava di quando rincorreva la littorina, il vecchio treno che portava da Clusone a Bergamo. Con i suoi amici faceva a gara a chi saliva prima, e diceva che era sempre lui il più veloce. Ma sempre con umiltà”. Antonio è sempre stato attivo e presente nella sua Comunità, un silenzioso punto di riferimento per chiunque avesse bisogno. Oltrechè uno sportivo appassionato di calcio e promettente calciatore della Nembrese, come ci dice Beppe: “Negli ultimi due anni ha avuto un rallentamento, si era affacciato un principio di Alzheimer. Questo è iniziato con gli 80 anni. Ma fino a prima lui era sempre fuori: al Parco Rotondo a tagliare l’erba, a fare attività, andava al bar degli anziani a fare la partita a carte. Era una persona attiva, non stava mai a casa se non per le normali cose. Aveva sempre qualcosa da fare. Poi giocava nella Nembrese. A 17 anni era già in promozione nella squadra del paese. Era un difensore forte. Tutti quelli che ci hanno giocato contro mi hanno detto che era una roccia”.

I ricordi si fanno nostalgia, il calcio una passione incontrollabile. Così arrivava la partita del cuore della Nembrese, e Antonio voleva partecipare. “Aveva 70 anni, non era più allenato, aveva ovviamente perso la potenza esplosiva della gioventù. Il fiato corto. Nonostante tutto, ha voluto esserci. Ma dopo pochi minuti uno scatto gli ha provocato uno strappo all’adduttore della coscia. Era ancora molto appassionato, aveva un legame forte con i suoi vecchi compagni”. Negli ultimi due anni era meno presente, ma è sempre stato vicino alla sua famiglia. Antonio non gli ha mai fatto mancare niente, anche se negli ultimi tempi aveva smesso di uscire e non vedeva più i suoi alpini. L’ultimo pranzo sociale in compagnia è del 27 gennaio.

La malattia letale

Poi, dal 16 febbraio, accusava un po’ di febbre. “Non si sapeva ancora niente di questo virus bastardo. Il dottore gli fa: quest’anno l’influenza è un po’ aggressiva, la febbre alta è comunque sotto controllo. Gli veniva data la tachipirina e prescritto l’antibiotico. Dopo 4 o 5 giorni la febbre non scendeva, così il dottore gli cambiava antibiotico. Ma niente, la situazione non migliorava. Il sabato la febbre era ancora alta. Soprattutto mangiava poco e sembrava disidratato”.

Il virus arriva silenzioso sotto la forma di un’ordinaria influenza. Nessuno sa ancora come stanno le cose. Nessuno conosce il virus che ha ribaltato le nostre vite. Intanto il Corona c’è e attanaglia i polmoni di Antonio. “Visto che la situazione non migliorava, ci siamo preoccupati. Così lunedì 24 febbraio, tramite conoscenti, riuscivamo a far venire un dottore e a portarlo all’ospedale di Alzano. Mia mamma arrivava in ospedale e aspettava fuori, senza sapere niente.  Lui era dentro. Il dottore usciva e le consigliava di andare a casa. Nel frattempo gli facevano il tampone, ma il risultato arriverà solo il mercoledì, quando mio padre è già stato ricoverato al Papa Giovanni”.

Padre e figlio ricoverati insieme

Il calvario di Antonio si intreccia con quello del figlio Beppe. “Il mercoledì 26, io stavo peggiorando. Ero a casa dal martedì precedente con la febbre e gli stessi sintomi di mio padre. Bevevo ma non mangiavo da 6 giorni. Avevo la febbre ma non avvertivo la mancanza di ossigeno. Mia sorella veniva da me e mi diceva: stai male, ma non lo vedi? Così chiamava l’ambulanza, che arrivava dopo due ore e mezzo. Erano circa le 19:30. Mi misuravano la saturazione: era 80 scarsa. Così, quel mercoledì sera mi portavano subito al Papa Giovanni di Bergamo. Mi mettevano la CPAP e io alle 23 ero già in terapia intensiva”. Padre e figlio sono ricoverati. Ma non insieme, per il momento. Quel mercoledì 26 febbraio Beppe è a Bergamo, il papà Antonio all’ex Bolognini di Alzano. Un padre e un figlio separati ma vicini, uniti nella lotta difficile contro un virus imprevedibile e subdolo. La sofferenza colpisce e fa tabula rasa, non risparmia i legami affettivi profondi e intimi. “Mia sorella, tornata a casa, riceveva una chiamata alle 4 del mattino. Era l’ospedale di Alzano: il tampone di mio padre era positivo. Così decidevano di trasferirlo al Papa Giovanni, proprio dove io ero ricoverato in terapia intensiva. Il dottore aveva avvertito mia sorella che mio padre era sedato e che non c’era alcuna speranza che si risvegliasse. Così mia sorella si precipitava in ospedale. Trovava mio padre in fin di vita. Alle 7 di quella mattina è venuto a mancare”.

Tutto così in fretta, senza la possibilità di una comunicazione, di un saluto, di un ultimo gesto di Beppe verso Antonio. Beppe è nello stesso ospedale del padre ma non lo sa. Antonio non saprà mai di essere mancato nello stesso ospedale del figlio. Beppe ce la farà, dopo lunghe e faticose settimane in terapia intensiva. Antonio non ce l’ha fatta. Il figlio non si dà pace: “Mio padre ma dove l’ha preso il Covid, che era sempre in casa? E poi, siamo stati ricoverati insieme. Che sofferenza non sapere che mio padre era lì con me, nella stessa struttura. Non l’ho potuto abbracciare, ma si rende conto?”.

Il virus silenzioso ha annullato generazioni come questa. Un padre e un figlio, nessun abbraccio. Nessun conforto a lenire le ferite di un dolore incolmabile. Un padre e un figlio abbandonati al proprio dramma senza ritorno, costretti a non esserci l’uno per l’altro. Una sofferenza più grande della morte. Una solitudine straziante senza gesti di conforto. Ditemi voi se questo è morire.

Alberto Luppichini

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